Zorro (Rosario D’Angelo) è un
barbone-clochard che in cambio di pochi spiccioli – sarò lo
spettatore stesso a darglieli se vorrà – racconta pezzi della
sua storia, ma esaurito il tempo del gettone si ferma. E di
nuovo lo spettatore deciderà se farlo continuare con un altro
gettone.
Zorro entra ed esce dal racconto, gioca, scherza,
ripete con precisione i gesti quotidiani – fa quello che fan
tutti: si sveglia, si lava, si veste, mangia, dorme –, mentre
scava nella memoria alla ricerca delle cause che l’hanno portato
a vivere per strada, chiedendosi se sia stato il destino o si
sia trattato di una scelta.
«Quale forza
fa sì che un piano, sul quale si dispongono ordinatamente le
esistenze, possa all'improvviso inclinarsi e generare scompigli
tali da non riprendere più il filo con il quale muoversi in
direzione dell'ordine?
Questa è la
domanda che si pone Zorro che, ripercorrendo negli stralci della
sua memoria, cerca di scorgere l'istante in cui la forza fece sì
che il suo piano si potesse inclinare.
Nel suo
racconto carsico i sedimenti degli eventi che hanno marcato la
sua vita fino a quel momento vanno a costituire la storia di un
uomo che, guidato dalla accidentalità del caso, recupera al
prezzo di ogni certezza e comodità perduta soltanto un nocciolo
di pesca da poter tenere nel palmo di una mano come ogni
principio di libertà che si rispetti. |