Ciò
che ne scaturisce è un triplo condensato: della
vita dell’uomo, della storia della civiltà occidentale
(dalla morte di Giordano Bruno fino ai giorni nostri),
ed infine dell’esperienza dell’attore come motore del
teatro, inteso come “luogo dov’è possibile radiografare
l’uomo e guarire la vita”.
Attraversare l’Amleto in solitaria come una navigazione
transoceanica. Proporre ad un attore di appropriarsi
della tragedia shakespeariana e di raccontarla da solo,
o quasi… Scommettere che anche gli spettatori lo
seguiranno in questo viaggio: che presteranno « i loro
corpi, i loro occhi, le loro orecchie» ai personaggi
assenti. Uno spettacolo che si rivelerà nella sua forma
solo al momento dell’incontro con il pubblico: sarebbe
forse più appropriato definirlo una performance.
Al
centro della scena: una sorta di calderone alchemico
dal quale e nel quale, nasce vive e muore Amleto. La
scenografia è concepita per favorire l’appropriazione
dello spazio scenico da parte degli spettatori. Amleto è
completamente circondato dal pubblico su quattro lati.
Rimangono quattro angoli, quattro brecce attraverso le
quali saranno possibili delle entrate e delle uscite,
perché l’Amleto è anche una storia di fantasmi, di
apparizioni. Amleto, i suoi miti, i suoi doppi, le sue
escrescenze. Un universo mitologico vasto e
terrificante. Difficile attraversare un tale viaggio
senza delle guide spirituali: Howard Barker, Heiner
Müller, Johnny Hallyday, Carmelo Bene, Jules Laforgue e
Koltès… Incontrare questi fantasmi per lasciarci
attraversare e possedere dalla voce dei «senza-voce».
La
scena è una tomba spalancata.
Quando
il dramma ha inizio, il Re è stato appena sepolto e suo
figlio si è visto escludere dalla successione. Gli viene
inoltre imposto di non lasciare Elsinore. Amleto è
quindi condannato a rimanere
“in scena”!
Questa
reclusione forzata obbliga sia l’attore che il
personaggio a cercare una via d’uscita da una situazione
senza scampo: un’allegoria della condizione umana?
PERSONA, un
théâtre de la parole
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