La parola
fotografia deriva da due parole greche: foto (phos) e grafia (graphis).
Fotografia significa quindi scrittura (grafia) con la luce (fotos).
Verso la fotografia, ruotano molti artisti appartenenti a
movimenti diversi (arte concettuale, land art, body art,
performance), interessati soprattutto alla critica d'arte,
all'indagine estetica e all'approccio strutturalistico,
adottando nuovi criteri di lettura e di giudizio che
istituiscono legami sempre più stretti fra arte e percezione e
arte e psicologia.
Oggi , più che
mai, la fotografia è diventata una vera espressione artistica.
è con l'arte Concettuale che la fotografia si stacca da ogni
legame con la realtà pittorica e dalla riproduzione della
bellezza naturale del paesaggio in sé e per sé, per acquisire
gradatamente un linguaggio suo, non legato a tecniche
particolari. Oggi con l’avvento del digitale è cambiato in parte
il mondo della fotografia. L’analogico e il digitale sono però
due correnti di pensiero totalmente differenti dove l’uno non
esclude l’altro. Il bravo fotografo è un artista eclettico. Lo
stato emozionale di ciascuno crea quell’immagine unica ed
irripetibile che si chiama “Opera d’Arte”. Con “Fotografia
d’Autore” si vuole rendere omaggio a questa forma di arte .
Fotografie essenziali, lente, di ampio respiro, forti, definite,
analogiche, digitali che immortalano solo la visione
dell’artista, quella piena di stupore che nasce da uno sguardo
contemplativo, dalla scoperta di un angolo visivo particolare,
da ciò che il fotografo riesce a vedere nel profondo, queste le
opere presenti a “fotografia d’autore”
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FOTOGRAFIA D’ AUTORE
Testo critico
Dario Ciferri
Un viaggio attraverso la
fotografia per offrire uno sguardo, certamente parziale,
sul senso e sulla situazione della foto oggi. Questo
linguaggio artistico ha ormai una storia molto ricca e
negli ultimi anni ha segnato trasformazioni e modifiche
tecniche impensabili fino ad alcuni anni fa. Il
passaggio al digitale ha infatti permesso di intervenire
sull’immagine con una semplicità e un’efficacia
difficile da ottenere nell’epoca della pellicola, e
tutto questo senza una perdita di fascino o forza del
linguaggio, anzi riuscendo a rafforzarlo.
Un'aliena discesa nel
nostro mondo viene rappresentata da Karin Andersen
con Talk, la tecnica è quella spesso utilizzata
dall'artista, dell’ibridazione delle specie ottenuta
attraverso la manipolazione digitale della foto.
L'alieno atterra e entra nel nostro mondo, un contatto
che avviene in campo aperto, tra un ambiente naturale
fluviale e una tecnologia algida e per noi solo
immaginifica. |
L'artista stessa entra
nell'immagine, modifica il suo aspetto e si trasforma in aliena.
È un viaggio verso la terra per poterla comprendere, capire
l'uomo guardandolo da fuori, assumere uno sguardo esterno per
vedere la realtà. È un contatto tra “diverso” e “normale”, un
percorso in cui emerge che l'ibrido è un sentiero che passa
attraverso ciascuno di noi, impegnati a dover comprendere le
diversità che vivono e crescono quotidianamente nella nostra
società. In fondo siamo tutti alieni, impegnati a nasconderci
ogni giorno per non essere giudicati, per non perdere il nostro
piccolo universo interiore.
Giovanni Battimiello
con la serie Tienimi realizza una serie di foto stampate
in modo analogico e montate su alluminio. Il soggetto del
progetto è una corda da bucato su cui sono appese delle
mollette, tutte diverse tra loro, riprese dal basso verso l’alto
che si stagliano contro il cielo. Anche il colore del cielo si
modifica e assume talvolta colori improbabili. Tienimi parla del
desiderio del volo, del sogno di muoversi nel vuoto con la
nostra materia corporea, di riuscire a superare la forza di
gravità. È un desiderio che è sempre appartenuto alla specie
umana e che è stato superato solo grazie all’uso di strumenti
meccanici. La gravità rende possibile la vita sulla terra e le
condizioni per cui nell’atmosfera ci siano le condizioni per
l’esistenza delle specie viventi, eppure è proprio questa legge
naturale a continuare a vincolarci alla superficie terrestre e,
anche quando riusciamo a elevarci e a stagliarci verso il cielo,
dobbiamo comunque aggrapparci a qualcosa per non precipitare.
Panoramica spiaggia
di Piero Chiariello è un’opera stampata su carta
analogica e montata su dibond. Per realizzare i suoi lavori
l’artista parte da un’immagine fotografica preesistente o
realizzata appositamente, la cancella in massima parte lasciando
soltanto poche righe che successivamente dilata fino a
rioccupare l’intera superficie del lavoro. Chiarello ci offre in
questo modo l’opportunità di poterci addentrare nella profondità
del reale, di ricercare l’essenza presente in ogni singola
porzione di spazio e di materia. È una visione depurata che
cerca di farci apprezzare ogni singola particella che compone il
mondo intorno a noi, una ricerca della bellezza in senso
assoluto. Eliminando porzioni di superficie l’artista intende
spiazzarci, infatti toglie la componente consolatoria, che il
riconoscere un paesaggio può avere su di noi, per restituirci
ciò che normalmente non percepiamo. Ci pone davanti a una parte
che rappresenta il tutto, realizza delle sineddoche visive che
aprono la strada a nuove esperienze estetiche.
Con Piùmeno Roberto
Cicchinè compie un'operazione di aggiunta e sottrazione di
elementi, realizzando una serie di lavori in cui la fotografia è
il mezzo per presentare un percorso intorno all'essere umano,
alle sue paure, alle sue possibilità. Un lavoro di completamento
totale è fatto attraverso il puzzle, tutto bianco ma con ogni
tessera incastonata al suo posto, la bocca invece evidenzia
subito un'assenza, manca un dente, una mancanza che però è anche
segnale di crescita e sviluppo, perché è la bocca di una bimba
che ha perso il dentino. Un percorso che è anche affettivo per
l'artista, perché quello fotografato e il viso della figlia.
Cicchinè attraverso la semplicità delle immagini raffigurate
veicola un messaggio forte, che parla di lui, della sua vita,
della sua ricerca di sicurezza. Un lavoro che guarda al futuro e
ci mostra che non sempre l'assenza è una mancanza, e che il
completamento rende chiaro l'insieme che abbiamo davanti.
Forest hill baths
rientra nella serie Absence of Water, un progetto ancora
in corso attraverso cui Gigi Cifali sta documentando lo
stato di decadenza di alcuni bagni, piscine e lidi pubblici nel
Regno Unito. Questi luoghi sono stati in auge fino agli anni ‘30
del secolo scorso, poi sono stati via via abbandonati, alcuni
demoliti, perché ormai erano antieconomici e per il cambio delle
abitudini della gente. Questo lavoro apre una riflessione molto
profonda sull’acqua, sulla sua funzione fondamentale per la vita
e sull’uso che ne viene fatto. L’acqua determina la ricchezza o
meno è indispensabile per vivere e la sua mancanza porta
inesorabilmente alla rovina, esattamente come è accaduto a
queste piscine. Architetture di grande fascino che mostrano
l’azione irreversibile del tempo, la rovina il senso di vuoto
che le circonda e le riempie ma che sono testimonianza e memoria
di un’epoca in cui quei luoghi erano pieni di voci e risa e il
centro della vita della comunità.
Una riflessione ironica sulla
violenza che si è perpetrata nel secolo passato, questa è
rappresentata dagli Alimentari di Peter De Boer.
Le immagini di due dei più sanguinari dittatori del XX secolo,
Idi Amin Dada e Pol Pot, vengono utilizzate infatti sulle
confezioni di cioccolato e riso. Le due foto sono ottenute
attraverso la manipolazione digitale dell’immagine. Peter De
Boer prosegue con questi lavori nel suo lavoro di ricerca e
denuncia dell’assurdità della violenza umana. Una ferocia che
nel secolo scorso è costata la vita a milioni di persone,
attraverso, guerre, deportazioni e genocidi, una strage che
spesso si è fatto finta di non conoscere e non vedere, per
interessi politici economici e per convenienze di vario tipo. La
cioccolata Idi Amin e il riso Pol Pot ci raccontano esattamente
questo, un’abitudine alla violenza che quotidianamente ci fa
chiudere gli occhi per non sentire e non vedere. Una storia che
non è finita con la fine del primo millennio ma si è ripresenta
identica ogni giorno, anche oggi.
L’essere umano si è da sempre
dovuto confrontare con la morte, cercando di capirla, di
affrontarne la paura e sognando di poterla dominare. Danilo
De Mitri racconta questo rapporto portandoci all’interno
delle complesse città che abbiamo costruito per conservare le
spoglie dei nostri cari: i cimiteri. Strutture edilizie ideate
per separare i morti da noi (anche per ragioni igieniche) e per
perpetuarne il ricordo. A segnare questo percorso tra lapidi,
tombe, loculi e fiori è un ragazzo con il volto di Topolino. Le
immagini sono di una quotidianità un po’ assurda, vediamo
infatti questo nostro Cicerone mentre si aggira nei diversi
angoli del cimitero, sempre accompagnato da una sigaretta
accesa. Ironico e spiazzante il lavoro di De Mitri ci offre la
possibilità di ripensare il nostro rapporto con la morte, lo
normalizza inserendovi come tramite un personaggio della
fantasia, va ad interferire con una delle parti più controverse
del nostro animo.
Armando Fanelli
attraverso Password compie un lavoro intorno all’uomo,
all’omologazione, al bisogno di libertà e di connessione. Gli
scatti, realizzati in digitale, ci mostrano una serie di sacchi
a pelo allineati e subito dopo un gruppo di persone in piedi al
di fuori dei sacchi stessi, in un dittico visivamente e
simbolicamente molto forte. Il sacco è come una crisalide al cui
interno siamo tutti uguali, omologati, e nel momento che
iniziamo ad uscirne che emergono le personalità, le prospettive
i sogni di ciascuno. Password è la chiave attraverso cui questo
processo si compie, nel momento in cui immettiamo il nostro
codice, riesce ad emergere la nostra individualità che insieme
alle altre dà vita a una collettività complessa, ricca e viva.
Questo modello sociale appare, però, contraddittorio, perché
l’emergere dell’individuo appare vincolato a codici che gli
permettono di relazionarsi col nuovo mondo che stiamo creando.
NòART è il nome di un progetto
audiovisivo che unisce due artisti, Fenis e Casbah e che secondo
il tipo di linguaggio utilizzato vedono il prevalere dell’uno o
dell’altro, le immagini proposte, in questo caso, sono di
Fenis-NòART. La foto è un’esigenza comunicativa personale.
Gli scatti catturano semplicemente momenti in cui l’obiettivo
prende non solo il soggetto della foto, ma anche l’attimo di
fusione tra l’artista e l’oggetto, attimo di fusione che entra
nella coscienza e viene poi fuori nel momento in cui si riprende
la foto scattata. A questo punto vengono fuori le parole che
vanno a lasciare una traccia nell’immagine. Ogni foto è nominale
perché su ognuna è scritto in qualche posto il suo titolo. La
scritta vuole allora mettere in risalto questa semplificazione,
porci di fronte a questa evidenza. Il filo spinato segna un
confine, la maniglia cigola. La valenza all’immagine deriva
dall’oggetto stesso e dal legame che assume con il fotografo,
così il filo spinato è preso da una stazione chiusa che si lega
a dei particolari momenti della vita dell’artista.
Le foto di Emilio Maroscia
ci parlano del mondo, di frammenti di vita incontrati un attimo
e ripresi attraverso la propria macchina digitale. Le immagini
ci mostrano la Bolivia, la sua gente, la sua vita, i suoi
colori, il paesaggio. Apparentemente non c’è nulla di nuovo in
questo, sembrerebbe il classico resoconto di viaggio di un
fotografo europeo, fatto di bei scatti e bei colori, un lavoro
che insomma cerchi di soddisfare i gusti estetici del nostro
territorio e il nostro desiderio di esotico. Maroscia, però, non
si ferma a questo, compie un’operazione più complessa e porta
avanti un discorso più profondo. Le sue foto sembrano parlarci,
i visi ci comunicano l’ansia, la gioia, la fatica, la speranza.
Si legge il cambiamento che la gente sta vivendo, sia personale
che come paese. È stato detto che non è stato Maroscia a
scegliere la Bolivia ma la Bolivia a scegliere lui, e questo
probabilmente è vero. Dagli scatti emerge l’amore per quella
terra, da parte della gente che vi abita e sua.
Fin dove si può spingere la
possibilità umana di ibridare le specie? Dove ci sta portando la
ricerca genetica? Carla Mattii dà forma alle
contraddizioni a cui la genetica ci mette di fronte, lo fa
realizzando dei fiori, bellissimi, che non esistono in natura,
fiori creati dal montaggio/fusione di altre specie vegetali.
Piante che poi prendono forma nelle opere fotografiche, nei
kit-scultura, nei lightbox. Questi ultimi, realizzati stampando
le immagini su duratrans, mostrano anche l’habitat in cui queste
nuove specie vegetali si trovano a crescere e vivere. Le opere
della Mattii colpiscono per la bellezza e il fascino che i suoi
fiori emanano, ma nello stesso tempo ci pongono davanti alla
questione se quello che stiamo percorrendo sia o meno una strada
corretta. Lascia perplessi soprattutto la possibilità che l’uomo
si sta adducendo di modificare e controllare la natura, un
potere immenso che sta scardinando leggi che governano da sempre
la vita e l’equilibrio delle specie sul pianeta.
Ogni giorno siamo investiti da
milioni di informazioni, immagini, suoni, video, in un labirinto
mediatico che ci circonda, affascina, spesso soffoca. Antonio
Montano parte da questo continuo e fluido flusso di
informazioni per costruire un universo artificiale dove si
fondono frammenti di quotidiani, di riviste, immagini che
vengono tagliate, rielaborate in digitale e ricombinate in un
nuovo contesto. Un mondo artificiale, si è detto, che offre
continui rimandi al mondo della comunicazione, del cinema, dello
show business. È tutto più facile e il risultato di questo
processo alla fine viene stampato su carta fotografica e montato
su communication, dibond o plexiglass. In questa nostra epoca in
cui ci troviamo sopraffatti dalle informazioni, il lavoro di
Montano riesce a intervenire, anche in maniera ironica, sui
codici linguistici e a mostrarne limiti e artifici. È un gioco
serio, uno smascheramento della patinatura che circonda
l’ambiente dello spettacolo, per riappropriarsi della libertà e
del gusto di inventare una storia.
Sabrina Muzi
propone un’opera che parte dalla natura per parlare del mondo,
della storia e dell’uomo. Un albero legato con una corda,
stretto, imprigionato e torturato. Una costrizione che però non
riesce a bloccare la natura della pianta, e infatti tra i giri
della corda vediamo spuntare dei germogli. L’artista ha
realizzato queste opere durante un viaggio in Cina, ha
fotografato gli alberi piantati a lato della strada. La corda di
bambù è stretta intorno a della plastica per cercare di far
crescere dritte le piante. Un elemento che viene inserito per
piegare la natura a regole imposte dall’uomo. La pianta si piega
certamente alle regole che le vengono imposte ma nello stesso
tempo reagisce e cerca di ritrovare un suo percorso Un
adattamento che, nonostante il controllo, porta l’albero a
cercare un sistema per potersi riprodurre. Let me dance è
una serie di 13 scatti grandi 33 x 26 cm, stampati su carta,
capace di cogliere e raccontare l’energia incontenibile della
natura.
Silvestro Reimondo
concentra la sua attenzione sulla natura, raffigurando delle
vigne durante il periodo invernale. La neve caduta scende a
cancellare i segni dell’intervento umano, arrivando ad ottenere
quasi un senso metafisico nell’immagine. L’uso del bianco e nero
è fondamentale in questo procedimento, un bianco e nero la cui
capacità di astrazione è accentuata, lavorando sulla luce in
sede di camera oscura. La fatica dell’uomo, il lavoro nei campi,
il rapporto unico, bello ma spesso difficile del contadino con
la natura, si trasformano in un’opera d’arte. Le linee regolari
di un vigneto creano così un arabesco misterioso, una partitura
musicale, un segno della creatività umana in armonia con la
natura. Reimondo esprime un pensiero sulla natura, sull’uomo,
sul mondo contemporaneo, sulla sua possibilità di modificare il
paesaggio e sullo stupore che sono in grado di provocare le sue
opere. Le immagini diventano allora la forma metaforica di una
condizione esistenziale, mostrando la potenza e la bellezze
della sostanza al di là di quello che è immediatamente
percepibile.
Stefania Ricci
propone un trittico che fa parte della serie Insiemi naturali.
L’artista ha preso dei frammenti di natura, come i fili d’erba,
e li ha buttati sulla carta, una volta accesa la luce il
soggetto è venuto fuori. Sono nati dei mondi piccoli,
fantastici, forme astratte capaci di dare voce e ricreare stati
d’animo. La tecnica utilizzata è quella della fotografia a
contatto, lavori concepiti attraverso la foto-grafia, nel senso
letterale del termine: scrittura di luce. L’ingranditore
fotografico diventa come una penna, la superficie di scrittura e
costituita dai materiali utilizzati. La stampa infine è
effettuata con pigmenti di carbone su carta cotonata naturale.
Una ricerca di materiali e linguaggio che è anche un viaggio
dentro se stessi, un percorso che vuole proporre una contatto
nuovo con la natura, proiezione dello spirito e della fantasia
dell’artista. Frammenti, segni, impressioni riuniti sulla
superficie per creare una traccia, uno scritto, che dalla luce
vada a impressionare il foglio e l’occhio di chi osserva.
Le opere presenti di Mimmo
Rubino segnano due momenti del suo percorso artistico.
the Snake! è una serie di opere in cui vengono riprodotte
varie fasi del celebre videogioco. Le foto sono su pellicola ad
alta definizione, scattate con un banco ottico formato 12x10cm,
trasportate poi eventualmente su alluminio. Le sue sono sedute
di gioco/lavoro in cui cerca di ottenere delle forme, spesso
delle parole come HOME, oppure ANSIA. Concentrato nell’attimo
ambiguo che c’è tra linea e parola, il lavoro può condurre
anche alla fine del gioco pur di ottenere il risultato voluto.
In Cross lo specchio in un interno degradato l’artista ha
disegnato metà di una croce, poi utilizzando uno specchio ha
ottenuto la forma completa. Al centro della croce ha posto un
Gesù con i guantoni da Boxe al cui corpo il mirroring dà un
alone sacro. Non è possibile sapere se sia un perdente o un
vincente, conoscere la sua forza, è impenetrabile, esattamente
come il posto in cui si trova. Vive in questo luogo sospeso tra
la profondità dello spazio e la piattezza della croce.
Un’intuizione, una
suggestione, una riflessione possono essere il motore che fa
accostare due immagini nei dittici di Marco Scozzaro,
creando a livello mentale un legame tra cose che apparentemente
potrebbero anche avere poco in comune. In
Défricher/Déchiffrer
compie questa operazione stampando in Digital C-prints una serie
di opere che si muovono intorno all’uomo e ai suoi insediamenti
urbani. Un’osservazione sulla città che muta, si trasforma e
cerca di coprire la propria memoria. Le tracce delle vite
passate allora scompaiono vittime della necessità di recuperare
spazi. Ed è in questo rapporto tra l’uomo e lo spazio che i
lavori di Scozzaro trovano il loro motivo portante. Nuova
Donatella è un’impresa ormai chiusa e abbandonata, che sta per
essere ristrutturata per cambiare il suo utilizzo, a questa
immagine l’artista affianca la foto di una giovane ragazza nuda
con gli occhiali, creando un legame tra il decadimento di un
nuovo ormai finito e la giovinezza destinata a scomparire.
Rita Soccio
sfrutta un messaggio conosciuto e interviene al suo interno per
veicolare un altro messaggio. In queste stampe digitali su
alluminio l’artista prende uno dei simboli più conosciuti del
mercato sentimentale e ne stravolge il senso, modificando il
messaggio che il Bacio porta al suo interno. Il posto di una
trita frase d’amore è preso da un articolo della nostra
Costituzione, da uno di quei principi fondamentali che i padri
costituenti misero alla base dell’ordinamento della nostra
Repubblica. In un’epoca come la nostra, in cui continui sono gli
attacchi alla costituzione e all’importanza di un equilibrio e
di un controllo reciproco tra i vari poteri dello stato, è
importante riappropriarsi dei valori e mettere al centro della
vita della collettività la Costituzione, a partire dall’Art. 1.
Il lavoro di Rita è un invito a riflettere e a resistere
all’imbarbarimento che il nostro popolo e il nostro paese
subiscono da parte di chi mette avanti sempre e solo i propri
interessi personali.
I fiori possono avere tantissimi
significati, possono parlare d’amore, chiedere perdono,
esprimere cordoglio, vicinanza affetto. I fiori segnano i
momenti importanti della nostra vita, accolgono un ospite quando
viene in casa. Sono freschi, vivaci, vivi e appena appassiscono
eccone altri pronti a prenderne il posto. Rita Vitali Rosati
ha realizzato un ciclo di opere che hanno come filo conduttore
proprio dei fiori marci. Queste opere però non parlano di fiori,
riflettono invece sulla sorte dell’uomo. Le immagini, stampate
in digitale su alluminio, parlano di dolore, di malattia, del
percorso che porta verso la fine, non della morte ma della
consapevolezza della sua imminenza. La malattia è un momento
fondante della situazione umana, tutti ne siamo stati, in
qualche modo, toccati e segnati. Tentare di allontanare da noi
questo fatto sarebbe solo un non voler vedere. È evidente la
fragilità della situazione umana, una fragilità che i fiori ci
mostrano immediatamente, attraverso la loro bellezza che può
durare una settimana, un giorno o soltanto un’ora.
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