L’ira di Medea condanna il
mondo al caos. Un mondo che non risponde né corrisponde più all’individuo. Una
frattura incolmabile si produce tra il reale e il desiderio e più questo baratro
si amplifica più l’ira divampa. Il mondo, la realtà storica, non è più in
corrispondenza armonica con l’individuo, non c’è più un noi in cui riconoscersi,
a cui appartenere. Cittadino e società si contrappongono in un rapporto di
disarmonica estraneità. La solitudine infinita dei propri dolori, l’ipertrofia
orrenda delle proprie passioni diventa unica legge, unica causa delle proprie
azioni. Medea sancisce l’atto egotico di sottrarre sostegno eppure in una
reciproca, tremenda implicazione, il medesimo sostegno è a lei stessa sottratto.
Questa è sì la storia del
divenire di un mostro, un mostro morale, ma è anche la storia di una mostruosità
più nascosta e profonda che immischia nella colpa ogni attore sulla scena.
Nessuno è scevro dall’atto di questo supremo contemporaneo egoismo, la
solitudine costringe gli uomini a una salvezza furiosa, ognuno persegue un bene
colpevole, tutti siamo preda del male “omnes mali sumus”. Giasone ha infranto i
sacrosanti limiti del mondo alla ricerca del vello, Medea infrange i sacrosanti
legami della maternità. Nell’impeto di un desiderio che strumentalizza l’altro
in un atto permanentemente oltre-natura si spalanca il mondo contemporaneo del
disumano.
Il divenire Medea di Medea
“Medea nunc sum” disvela la sua mostruosità, ma disvela soprattutto al mondo il
suo nucleo fondativo. Medea ha salvato gli Argonauti, Medea ha reso possibile il
loro successo e il loro ritorno, in particolare il ritorno del cantore Orfeo,
colui che sulla sua lira fonda il sapere dell’Occidente. Ebbene il cuore rimosso
di questo Occidente è Medea, la sua ira cieca, il suo furore solitario. Un cuore
nero e rimosso pulsa e giace sotto le fondamenta scricchiolanti di un intero
mondo. Un cuore che nasconde un furto, quello del vello, un tradimento, quello
dell’amore per Medea, per l’altro da sé.
Il mondo ha smarrito i suoi
confini, è diventato, nelle parole di Nancy, un agglomerato, un ammasso. Sulla
terra le tracce di ciò che abbiamo perso. In questa folle ricerca di noi,
l’altro diventa l’intruso. Nel volto dell’altro viene iscritto il male, la
colpa, stigmatizzata, in un orribile gioco di proiezioni, la reazione alla
nostra violenza. Il volto dell’altro smette di raccontare quell’abisso che è la
precarietà umana, di raccontare quella pulsione etica al non uccidere, al bene,
quella vocazione a riconoscere nel dolore dell’altro un baluardo contro la
barbarie e diviene il sito simbolico del male. Volto costruito, artefatto,
temuto, attaccato, vilipeso, ingiuriato. Volto sbattuto nella prigione di
Guantanamo, volto nascosto nelle facce accigliate in un carcere russo in attesa
di rivedere cari smarriti da mesi, anni.
A questa ingiuria disumana,
risponde con pari disumanità Medea, infrangendo il supremo vincolo umano,
trascinando nella cenere il futuro, il ponte sottile e labile gettato tra due
mondi.
La sua furiosa ira deflagra,
le fondamenta collassano e ciò che si mostra con mostruosa vividezza è la radice
oscura di una colpa tanto universale da non avere più colpevoli. Le macerie
lasciano la scena vuota di ogni ricostruzione, il futuro non è che lo spettro
mostruoso di questo nostro atroce rimosso.
Francesca Manieri e Pierpaolo
Sepe
durata spettacolo: 90 minuti
senza intervallo
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