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Sono autoritratti
reciproci, partecipi, che fissano momenti quotidiani, ora malinconici,
ora giocosi, da cui mai si ricava l’impressione che si tratti di
esercizi vani, solipsistici. Si capisce che il loro orizzonte è oltre la
realtà contingente delle quattro mura. E anche quelle pose che a prima
vista siamo tentati di classificare come narcisistiche sono invece
simbolo di una umanità esuberante e repressa. E in ciò, in questa
universalità non narrativa, risiede la qualità estetica delle loro
fotografie. I temi più ricorrenti, oltre al ritratto, sono la palestra,
l’esibizionismo discreto, la struttura vista da angolature ricercate.
Non mancano struggenti nature morte colte col teleobiettivo, a conferma
che l’intento non è di denuncia. Ma non è nemmeno musica d’angeli.
Avanzato quanto si vuole, il carcere di Bollate rimane luogo di
reclusione. E l’immagine della coppia di cavalli lucenti, sullo sfondo
delle mura grigie, con le code mosse dalla corsa, è commovente e
dichiara tutto il rimpianto dell’autore per la perdita della vita piena.
Dato di fatto che suscita pensamenti, rimuginazioni. Soprattutto in chi
ha scoperto in carcere, grazie anche alla dedizione volontaria di
ammirevoli animatori esterni, di possedere delle abilità impensate.
Sugli autori:
Gli autori delle
fotografie sono persone detenute, alcune delle quali sono ritratte nelle
foto in mostra. Sono per la maggior parte giovani, alcuni italiani ma
molti di loro provenienti da diversi parti del mondo, dal Nord Africa,
dall’Est Europa, dal Sud America. |