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Immaginate di essere
un attore che non riesce più a recitare. Da qualche tempo avverte che le
battute e le azioni previste dal copione sono del tutto inadeguate e
insufficienti a esprimere la lacerante, contraddittoria complessità del
presente, che lui percepisce, pur senza riuscire a decifrarla del tutto,
con un certo sgomento che, spesso, cresce fino al disgusto.
Un attore che, una
volta tanto, rifiuti la propria tipica funzione di automa da
palcoscenico e decida, improvvisamente, di dire o fare qualche cosa che
non sia comandata da quel testo che ripete ogni sera e che il pubblico e
i colleghi si aspettano da lui. Lo sa: basterebbe pochissimo a spezzare
il meccanismo perfettamente ordinato della rappresentazione e scuotere
lo spettatore dal torpore, obbligandolo a guardare in modo inconsueto e
non convenzionale la realtà che quotidianamente lo circonda, della quale
è, insieme, vittima e complice.
Quale parola, quale
gesto, nella sua immediata semplicità è tanto potente, tanto eversivo?
Questa è la domanda, non detta, che il protagonista dello spettacolo,
instancabilmente, si pone – e il pubblico con lui.
Ma se cercate
risposte certe, soluzioni, rassicurazioni, consolazioni, avete sbagliato
posto: qui non ne troverete. Tutto ciò che l’attore ha da offrirvi sono
i sogni, le metafore, le allegorie, i paradossi – solo apparenti – che
due grandi artisti italiani, Gaber e Luporini, hanno immaginato e
scritto tra il 1974 e il 2000. |