Note
dell’Autore - Masolino D’Amico
Scritta per
Marta Abba, Come tu mi vuoi è la sola commedia di Pirandello
ambientata almeno parzialmente fuori d’Italia – il prim’atto si svolge infatti a
Berlino, nella Berlino degli ultimi anni venti, quella dei cabaret di Grosz e
Kurt Weill, dove il drammaturgo soggiornò a lungo.
Qui la
protagonista, una donna che l’autore chiama l’Ignota, balla e intrattiene i
clienti in un locale equivoco, ma in realtà è mantenuta da un ricco e vizioso
scrittore che la soffoca con le sue ossessioni. L’occasione per sfuggire a
costui e alle ambigue profferte delle giovane figlia di costui, anch’essa
innamorata di lei, si presenta all’Ignota quando uno sconosciuto, un italiano,
riconosce o crede di riconoscere nella donna la moglie di un suo amico,
scomparsa dieci anni prima durante la Grande Guerra, quando le truppe
austrogermaniche invasero il paesino friulano dove la coppia abitava,
saccheggiando la loro casa…
Ispirata dal
caso Canella‐Bruneri che furoreggiava al tempo in cui la commedia fu scritta,
Come tu mi vuoi ha una struttura molto compatta, composta com’è da
questo antefatto torbido e misterioso – l’azione si risolve addirittura con un
colpo di rivoltella – e poi da una lunga conclusione, ovvero il secondo e il
terz’atto che si svolgono senza soluzione di continuità, alcuni mesi dopo, in
una villa friulana. Qui si cerca di stabilire definitivamente l’identità
dell’Ignota mediante una sorta di processo familiare non privo di colpi di
scena. Secondo il suo solito, Pirandello lascia che le cose si chiariscano
gradualmente, tenendo lo spettatore il più possibile all’oscuro di quello che
veramente accade e poi da ultimo sorprendendolo con un finale ambiguo, che
ribadisce l’impossibilità di raggiungere una verità che valga per tutti.
Aderendo alle
consuetudini del teatro dei suoi tempi, il drammaturgo previde un coro di
comprimari abbastanza ampio – le compagnie erano numerose e bisognava utilizzare
tutto l’organico – ma già Hollywood, che si impossessò subito del soggetto e ne
trasse un film con alcune delle maggiori star dell’epoca (Greta Garbo, Eric Von
Stroheim, Melvyn Douglas) asciugò il copione riducendolo all’essenziale, non
molto diversamente da come ha fatto tre o quattro anni fa Hugh Whitemore in una
versione inglese che è stata recitata con gran successo nel West End di Londra
da una compagnia in cui spiccavano Kristin Scott‐Thomas e Bob Hoskins.
Quel film e
quell’adattamento, pur alquanto liberi entrambi, hanno dimostrato quanta forza
ci sia dentro questo testo, soprattutto se lo si sfronda di certe ripetizioni ed
esitazioni nate ad uso di un pubblico meno smaliziato e più paziente di quello
moderno e se si eliminano non pochi personaggi molto minori, privi di funzioni
essenziali.
Così decantato,
meglio ancora se recitato senz’altra cesura che quella tra il cupo antefatto
nella cupa Berlino dell’Opera da tre soldi e il “processo” nella luminosa villa
italiana, il dramma avvince non meno di quelli del Pirandello più inquietante.
Questa almeno è stata la meditata convinzione che mi ha guidato nel mio
adattamento per otto personaggi soltanto, ciascuno dei quali ha una sua funzione
determinante e ciascuno dei quali dà all’attore materia in cui affondare i
denti.
Niente di
fondamentale ovviamente è stato omesso e il linguaggio così caratteristico di
Pirandello è stato rispettato senza alcun tentativo di attualizzazione; ma oso
dire che così liberato dagli orpelli, questo linguaggio risulta ancora più
incisivo che nel dettato originale. A decidere saranno comunque gli spettatori
di questa pièce che non si ha spesso l’occasione di ascoltare.
Note di regia
- Francesco Zecca
Al centro di
questa opera, come in tutte quelle di Pirandello, c’è sempre questa ricerca
spasmodica dell’identità. La ricerca della propria identità è un tema molto
legato a questo periodo storico, dove la ricerca non avviene dentro, ma fuori,
nel riflesso degli occhi dell’altro. Pian piano si diventa quel riflesso, che ci
allontana sempre di più dal proprio sé; si diventa altro da sé; si diventa
quello che gli altri hanno deciso: “Non ci sono prove contrarie che tengono
quando si vuol credere in quello che si vuol credere”.
Così inizia
questo gioco al massacro da parte della protagonista che è pronta ad essere
“Come tu mi vuoi” ma con autenticità, con verità. Raccontare tutto questo con il
teatro, dove la verità non esiste, ma dove tutto deve essere estremamente
autentico, per poter far risuonare lo scricchiolio dell’anima dei personaggi. La
mia lettura si fonda esattamente su questa ricerca delirante dell’autenticità e
per poterla trovare bisognerà perdersi nei tunnel oscuri della memoria; la
memoria del sentire e non quella dei fatti, delle prove.
L’Ignota nel suo
tentativo di essere “come tu mi vuoi” prova a cercare la propria identità nella
logica razionale, ma non trova nulla, perchè non riesce a fingere al suo
sentire; così porta al rovesciamento del reale all’irreale facendo cadere tutti
nel burrone della follia.
Solo tra le
pieghe della follia che si riesce a sentire un lontano odore di autenticità.
Vivere della
propria fantasia e non della propria storia! |