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MOSTRA
OMAGGIO A GIUSEPPE DI VITTORIO - Roma
L’impegno, il lavoro
Omaggio a Giuseppe Di Vittorio
venerdì 2 aprile
sabato 10 aprile 2010
Biblioteca Elsa Morante
Via Adolfo Cozza, 7
Roma
Artisti:Ugo Attardi, Ennio Calabria, Bruno Caviola,
Giancarlo Isola, Achille Perilli Bruno Pagliai, Gianni
Crialesi, Mario Di Cara, Nino Palleschi, Renzo
Vespignani, Alberto Ziveri, Antonio Laglia e Renato
Guttuso.
Inaugurazione 2 Aprile ore 18.00
Critica a Cura di Gianluca Tedaldi
orari lunedì, martedì e mercoledì 9-13 / 15-19, giovedì
9-19, venerdì 9-22, sabato 9-13 L’impegno, il lavoro: un
titolo che si attaglia alla doppia proposta di questa
esposizione. Da una parte, Giuseppe Di Vittorio viene
ricordato nell’unico modo fertile di conseguenze, vale a
dire come una soluzione per il futuro, non con uno
sguardo retrospettivo. Dall’altra, si presentano artisti
e le loro creazioni. Si può immaginare di individuare un
terreno comune all’una e all’altra di queste prospettive
civili e culturali? Si. Suggerirei di cercare la chiave
in una direzione che, apparentemente, porta fuori tema:
Emilio Garroni, un dei filosofi italiani più
significativi, ha dedicato la parte migliore della sua
ricerca intellettuale alla creatività cioè alla
dimostrazione che l’immaginazione e l’intelletto vanno
di pari passo non solo nelle arti ma in qualunque
attività umana. Senza creatività, in sostanza, non si
produce il nuovo, non si avanza. Creativa fu l’opera di
Di Vittorio e una simile definizione non può
meravigliare perché, invece, si potrebbe addirittura
accentuare la forza del termine e parlare di
visionarietà per dare ragione della sua capacità di
orientare tutta la sua vita nella direzione di un ordine
delle cose che assolutamente non esisteva quando
cominciò la sua attività. È, infatti, noto che le
condizioni sociali e umane delle persone impegnate
nell’economia agricola d’inizio secolo non
corrispondevano alle aspettative di una coscienza civile
– neanche in minima parte, potremmo dire. Chi avesse
vaticinato un cambiamento importante di quello scenario
sarebbe stato tacciato certo di visionarietà. Chi, poi,
avesse addirittura manifestato il proposito di essere
spunto e motore di eventi che avessero portato ad un
simile traguardo non avrebbe ricevuto considerazione per
il divario troppo grande che separava la realtà dal
progetto. Di Vittorio non fu intimidito da questa sfida
e creò – si può dire – quella realtà che in un primo
tempo era solo parte dei suoi sogni. L’artista si sforza
di comunicare la propria visione interiore a coloro che
condividono la sua stessa condizione umana ma non sono
riscaldati dalla medesima intima visionarietà che
permette a chi crea opere d’arte di ritrarre non tanto
quello che c’è ma quello che potrebbe essere, sia nel
senso della bellezza come dell’ordine. Ogni cosa del
mondo sembra contenere in se stessa potenzialità ma solo
in certe circostanze si può superare quel diaframma
tanto impenetrabile che separa l’immaginazione dalla
realtà. Ecco che ogni realtà esistente: volti, città,
natura, storia possono ricevere dall’intuizione
artistica una forma che è allo stesso tempo nuova ed
eterna. Nuova perchè mai sino ad allora conosciuta,
eterna perché questa novità si svela come l’intima
verità, la vocazione di quelle stesse cose ad esistere
in un modo più bello, più giusto. Sindacalismo ed
artisticità non si esauriscono, ovviamente, in processi
virtuosi che mirano al bene comune. Senza negare le
ombre, esiste ovviamente anche un lato oscuro di queste
luminose opportunità date a chi vive il nostro tempo. Il
sindacalismo deve passare attraverso la conflittualità
per ottenere le sue conquiste, l’artista soffre
intimamente il travaglio e le contraddizioni di un
processo creativo che non è indolore. Nell’uno e
nell’altro caso vi è quindi uno scenario drammatico che
non bisogna ignorare ma nel porre l’accento su questa
verità ci si rende conto che nessun avanzamento si
produce senza spesa: di vita, di affetti, di sé stessi.
Dietro a chi si è speso per una causa di bene comune o
per un traguardo di bellezza – anch’essa da gustare in
comune – non può che esserci un atto di generosa
donazione. Il risparmio (o, peggio ancora, l’avida
accumulazione), se messi in pratica da chi ha scelto di
agire sulla ribalta della cultura o della politica sono
contraddittori allo slancio stesso che deve aver spinto
gli esordi di questi rappresentanti della comunità. Di
Vittorio fu un uomo generoso. Nel toccante documentario
di Calo Lizzani e Francesca Del Sette si fa l’esperienza
di andare oltre il prevedibile inquadramento storico di
un personaggio illustre e si sente emergere, scena dopo
scena, da una testimonianza all’altra, un’umanità che
oggi appare quasi rara tanto è mutato il contesto e gli
stessi attori. Da questa testimonianza si ricava un
bilancio dell’opera di Giuseppe Di Vittorio che è
soprattutto un raccolto di stima, di affetti. di
viscerale gratitudine. Facciamo ora una parentesi che
permetta di presentare la mostra. Un po’ di gratitudine
la merita anche Gianni Crialesi che testardamente e con
minimi mezzi ha messo insieme questo evento: anch’esso,
quindi, frutto di una tenace visionarietà che non si è
arresa di fronte agli ostacoli (si potrebbe scrivere un
interessante romanzo solo narrando l’avventurosa storia
delle mostre, non meno tormentate nella loro gestazione
di tanti avvenimenti storici di grande risonanza). Cosa
mostra questa esposizione? Si tratta in gran parte di
opere di grafica che, per ovvie ragioni, permettono
un’agile esposizione e non soggiacciono ai costi e ai
vincoli del trasporto di pitture o sculture; non vuol
però essere – questa scelta sobria – una formula
immutabile perchè è certo che, con mezzi adeguati, il
tema di questo incontro fra creatività e impegno civile
potrebbe anche essere occasione per future riprese e
approfondimenti. Un breve inquadramento critico è utile.
La modernità e ciò che l’ha seguita (diciamo
provvisoriamente la post-modernità) è stagione quanto
mai ricca di proposte e tensioni artistiche. Difficile
tracciare un coerente sentiero che tocchi tutte queste
stazioni (i cosiddetti “ismi”) e spieghi le varianti
alla luce di un comune progetto. Con un’immagine
semplificatrice, si potrebbe paragonare il mondo
dell’arte a una grande nazione nella quale la parte
centrale (la capitale e i terreni vicini) rappresentano
l’arte antica, quella che sta “nel cuore” di questo
regno. La modernità, le avanguardie sono invece i
territori di confine, quelli situati a volte a
latitudini così estreme che la vita diventa difficile e
per pochi. Perché allontanasi dal confortevole centro,
dalla capitale (e, quindi, dalla tradizione) per andare
ad esplorare questi estremi territori? La risposta la
potrebbero dare quegli stessi europei che nell’Ottocento
si spinsero in regioni geograficamente agli antipodi del
continente: per ansia di conoscenza, per naturale
desiderio di non lasciare nell’ombra dell’ignoto alcun
aspetto dell’esistenza. Così fecero i pionieri
dell’avanguardia. In questi anni, in tempo di bilancio
di un secolo e di immaginazione di nuove prospettive, è
utile vedere messi a confronto nomi celebri e meno noti
che offrono la loro proposta alla nostra attenzione.
Interessante è la rappresentanza di artisti che potremmo
definire genericamente “innovatori” cioè di quelle
personalità che hanno spostato i confini del linguaggio
tradizionale in una direzione fino ad allora poco nota
non pochi di loro sono noti anche come scultori, a
testimonianza di una sensibilità libera da consuetudini
di bottega. Ugo Attardi domina sapientemente la
costruzione della figura ma ama contraddire questa
istintiva capacità di attingere al bello con ibridazioni
che invece sono drammatiche o addirittura deformano
l’anatomia. In lui realtà e visionarietà sono quasi
coincidenti. Anche Ennio Calabria è capace di imprimere
alle sue immagini una spiccata esasperazione nelle
proporzioni e nella prospettiva ma questo suo intervento
ha più lo scopo di generare dinamismo, una vitalità
contagiosa che si estende anche allo spazio, alle cose
inanimate Fra loro, Bruno Caviola può ben rappresentare
quel “linguaggio parlato” della pittura di espressione e
di temperamento che si è diffusa nella seconda metà del
secolo scorso come sostituzione del più convenzionale
“realismo quotidiano” . Anche le cose consuete, in
Caviola, si arricchiscono di una intensità che è anche
capacità fantastica. Giancarlo Isola resta, con notevole
successo, nell’ambito dell’arte che si avvicina alle
soglie dell’astrattismo pur senza rinunciare alla
riconoscibilità. Nelle sue forme la tensione drammatica
viene sostituita dalla ricerca di armonie cromatiche di
timbro vivace che si valgono anche di linee curve con
un’audacia garbata, potremmo dire. Achille Perilli è
personalità troppo nota per avere bisogno di ragguagli
critici. Le sue sperimentazioni di segni organizzati
come sequenze narrative sono, nell’ambito della presente
esposizione, le proposte più audaci ma anche quelle che
possono più stupire lo spettatore. Nel suo caso si
potrebbe parafrasare la moderna teoria della
comunicazione secondo la quale non è solo ciò che viene
detto (o dipinto) che ci influenza ma anche il modo
(cioè il segno che si usa). Perilli, senza dire nulla di
definibile, presenta un segno molto caratteristico, un
in parte frettoloso ma anche energico, che ha fatto
scuola presso i moderni artisti grafici. Restando su un
livello di audace sperimentazione, Bruno Pagliai si
potrebbe definire ”operatore estetico” per risolvere la
difficoltà di assegnare una categoria al suo lavoro.. Ed
ecco le sculture di Gianni Crialesi che completano
(quasi) il quadro delle proposte di più spiccata ricerca
formale le quali costituiscono la prima sezione della
mostra. Nelle sue agglomerazioni di materiali la ricerca
è rigorosa e mira alla sintesi, a quella semplicità che,
è noto, si conquista solo prezzo di sforzi costanti e
anche di intuizioni improvvise e risolutive. La prima
parte della rassegna, per esser veramente completa, ha
bisogno di fare omaggio al decano dei partecipanti, a
Mario Di Cara che, avendo traversato da testimone e
protagonista l’arte ( e la storia dell’arte) del
Novecento può ben considerarsi la cerniera tra coloro
che innovano quelli che alimentano la tradizione della
cultura figurativa italiana. Il suo apporto introduce
anche l’elemento onirico e surreale che sinora non aveva
fatto parte delle tendenze citate. Ecco allora che bene
si può connettere a questo spunto verso la figurazione
di vena fantastica il magistero di Nino Palleschi che
ormai da quasi mezzo secolo pratica e insegna l’arte
incisoria. Nel suo mondo interiore tutte le immagini
reali sono cariche di un’affettuosa trasformazione
introdotta dalla memoria mentre i sogni hanno il rigore
di attente esplorazioni del proprio animo. Incisore,
Renzo Vespignani lo fu in sommo grado ed i suoi esordi,
intimamente legati al mondo “decostruito” del dopoguerra
lo hanno portato a sviluppare una tecnica che,
all’opposto, è capace di ricreare la realtà nelle sue
caratteristiche più minute. In questa perfezione,
tuttavia, aleggia sempre l’inquietudine di chi è
profondamente in sintonia con il tempo presente, sul
crinale tra salvezza e dissoluzione. Alberto Ziveri fu
tra gli artisti amati da Vespignani (che scrisse per lui
una commossa presentazione ad una delle ultime mostre
del maestro realista). Sebbene non troppo noto al grande
pubblico, Ziveri occupa nella storia dell’arte italiana
e della cosiddetta Scuola Romana un posto di spiccato
rilievo. Il suo realismo fu intransigente, tenace,
coerente anche quando i tempi e il mercato si opponevano
a tale scelta. Uno degli allievi più brillanti di Ziveri
(e forse il più bravo) è Antonio Laglia che opera nella
zona del litorale con la stessa coerenza ereditata dal
maestro e che gli permette di vivere la modernità senza
complessi rispetto al passato perché ne emula la
sapiente cura della forma che interpreta, da persona di
oggi, con la sensibilità attenta ad ogni aspetto della
“commedia” umana. Giustamente a Renato Guttuso può
spettare il posto d’onore a conclusione della sezione
figurativa. Non si tratta di un primato qualitativo
(perché nel parlare di arte moderna il giudizio deve
necessariamente restare sospeso e aperto ancora un po’)
ma di ruolo. Come difensore del diritto di fare arte di
impostazione tradizionale Guttuso ha saputo promuovere e
sostenere generosamente la tendenza figurativa con
scritti, interventi e la stessa vastissima produzione
delle sue opere. È quindi prestigioso ospitare nella
mostra una sua grafica. In conclusione, è bene
riprendere il discorso dedicato alla figura di Giuseppe
Di Vittorio e alla sua azione per inaugurare una nuova
stagione di rapporti fra le classi sociali. Il suo
idealismo fu accompagnato da grande concretezza e dalla
capacità di farsi anche mediatore fra opposte visioni.
La sua determinazione nel cercare di mantenere l’unità
del movimento che aveva contribuito a creare lo mostrano
padre sollecito di una realtà che egli non vede solo in
termini politici ma come un organismo diremmo vivente.
Anche agli artisti è stata spesso attribuita una cura
quasi paterna delle loro creazioni. In contrasto con
queste attitudini, possiamo anche fare l’esperienza di
una concezione opposta, che vede le lotte politiche come
occasione di potere o la creazione artistica come una
via per la ricchezza e la fama. Giuseppe Di Vittorio
avrebbe duramente condannato le deviazioni di chi
antepone il proprio interesse a quello della
collettività in cui vive. Forse, l’esempio di questa
persona forte ed onesta, capace di grandi visioni e di
costanza nel renderle reali si offre come un modello che
vale in campi disparati e non ultimo nel mondo della
cultura dove è facile correre il rischio di perdere il
senso di ciò che si fa, il fine ultimo di tanto sforzo
di conoscenza che sempre dovrebbe essere l’accrescimento
di un bene comune. Prendiamo l’occasione di questa
esposizione come il segnale che non può esistere
rinnovamento senza creatività e che ogni atto creativo è
generato da una forte visione di come le cose potrebbero
evolvere e migliorare. L’opacità che avvilisce tante
iniziative e che turba le nuove generazioni deriva anche
dal non vedere esempi di un modo nuovo e autorevole per
affermare che l’esser umano è signore del suo futuro,
che può crearlo. Non si onora una persona nel
compiangerla ma nello sforzarsi di completare il suo
progetto. L’immagine che potrebbe essere presa ad
emblema di questa esposizione è il ritratto che gli fece
Carlo Levi e che si vede sullo sfondo durante
un’intervista al capo del sindacato: Levi condivise come
uomo le aspirazioni alla giustizia sociale e, come
artista, dette una definizione intensa al volto di
Giuseppe Di Vittorio, quasi riassumendo quel misto di
potenza e di gentilezza che lo caratterizzava. Arte e
Giustizia (cioè il bello e il bene) non sono realtà
reciprocamente estranee anzi, hanno bisogno l’una
dell’altra; potremmo dire che ci obbligano, amando
l‘una, a scoprire l’altra. con il sostegno della
Fondazione Giuseppe Di Vittorio Archivio Storico della
CGLI
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Associazione Espressioni D'Arte
www.espressionidarte.it
espressioniarte@gmail.com
info@espressionidarte.it
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