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BECKETT IN ROME - Roma
Convegno internazionale
su Samuel Beckett
17, 18, 19 aprile 2008 presso Auditorium "Ennio
Morricone"
Facoltà di Lettere e Filosofia - Via Columbia, 1 – Roma
Samuel Beckett non finisce mai di interessare, spesso da
angolature del tutto nuove e con approcci differenti…la
sua sperimentazione del linguaggio e la sua nuova
percezione della drammaturgia hanno rivoluzionato la
nostra idea di teatro.
Considerato, secondo una felice intuizione di Martin
Esslin, fra i massimi esponenti del teatro dell'assurdo,
Beckett, a pochi anni dalla scomparsa (1989) è già un
classico della letteratura. Personaggio spigoloso (non
andò mai a ritirare il premio Nobel per la letteratura
conferitogli nel 1969) e stringato come la sua
scrittura, è già diventato un classico studiato in tutte
le scuole del mondo.
Benché la sua morte sia relativamente recente (1989), è
già unanimemente riconosciuto come il massimo
drammaturgo del Novecento, studiato negli Istituti di
ogni ordine e grado, con una sterminata produzione
critica incentrata sulle sue opere.
Questo convegno è stato così pensato per mettere in
contatto gli studiosi italiani con i maggiori esperti
internazionali del grande drammaturgo irlandese,
offrendo a tutti uno spazio di discussione e confronto,
creando un momento di incontro fra le più recenti
acquisizioni della critica italiana e di quella
internazionale. Per gli studenti dell'Università di Tor
Vergata la partecipazione è gratuita.
Comitato scientifico: Chris Ackerley, Enoch Brater,
Daniela Guardamagna, Daniela Caselli, Rossana Sebellin. Interventi:
Chris Ackerley, Enoch Brater, Mary Bryden, Daniela
Caselli, Stanley E. Gontarski, Carla Locatelli, Marx
Nixon, John Pilling, Rosemary Pountney, Giuseppina
Restivo, Dirk Van Hulle.
Il Convegno è stato
riconosciuto dal Ministero della Pubblica Istruzione
come corso di aggiornamento e per consentire la
partecipazione è stato concesso l'esonero dall'obbligo
del servizio nel periodo del Convegno.
Per iscrizioni:
https://www.beckettinrome.com/form_info.php
Convegno internazionale su
Samuel Beckett
17,
18, 19 aprile 2008 presso Auditorium “Ennio Morricone”
Facoltà di Lettere e Filosofia - Via Columbia, 1 – Roma
Intervista a Daniela Guardamagna (Comitato scientifico)
“Interpretando il
Finale di Partita non si può inseguire la chimera di
mediarne il senso per via filosofica: comprenderlo vuol
dire né più né meno comprenderne l’incomprensibilità,
ricostruirne concretamente il nesso significante, che
consiste nel rendersi conto che esso non ne ha”
(Adorno)… Eppure, a 19 anni dalla sua scomparsa, Beckett
è già un classico e ancora si continua a esplorare la
sua opera alla ricerca di un filo conduttore. Cosa e
quanto c’è ancora da dire su Beckett? E, soprattutto,
perché?
R.:
Faccio spesso lezione su Shakespeare ai miei allievi.
All’inizio dei corsi molti, che lo hanno studiato un
pochino a scuola, mi chiedono ‘come mai sempre
Shakespeare?’ Perché è splendido, rispondo. Perché dice
qualcosa di fondamentale per la nostra vita. Perché
parla di noi, della nostra vita, della nostra morte.
In modi diversi, tutte
queste cose sono vere di Beckett.
È uno dei grandi che,
invece di raccontare piccole storie quotidiane,
affrontano il tema della vita, della vecchiaia, della
malattia e della morte dell’uomo. Inoltre, come
Shakespeare, Beckett affronta questi grandi temi con uno
humour, una creatività (anche se il termine non
gli piacerebbe) e un livello di consapevolezza tali che
in qualche modo ce ne consegna anche la consolazione:
una sorta di catarsi, anche se lui rifiuterebbe anche
questa definizione. È uno dei grandissimi, insomma.
Beckett da questo punto
di vista è quasi necessario per affrontare il
Linguaggio, la Lingua e il Teatro del ‘900,
interrogandosi sul lavoro di chi più di chiunque altro
ha stravolto queste categorie, rendendole in sostanza
impraticabili. Su quali aspetti punteranno dunque gli
incontri?
R.: È
vero che – un po’ come Joyce con Finnegan’s Wake –
Beckett ha ‘reso impossibile’ proseguire dopo di lui
sulla strada che ha indicato; d’altro canto se lo si
realizza bene il suo teatro funziona, e funziona
in modi imprevedibili.
Personalmente, anche se il
nostro convegno si occuperà di tutte le forme della
scrittura beckettiana inclusa naturalmente la prosa,
penso che sia stato il suo teatro a risolvere
definitivamente quell’impasse che si era creata
con la sua Trilogia narrativa: quel che Beckett tenta di
fare anche nei romanzi è mostrare un linguaggio che
tende al silenzio, è “scavare dei buchi”, come scrive,
nel linguaggio, arrivando al silenzio ‘che farà la
migliore delle opere’, e questo è un progetto terribile
sulla pagina di un testo narrativo; mentre è splendido e
vitale – nonostante i temi trattati – nei suoi drammi,
dove la dialettica è mostrata nel suo svolgersi.
Dal punto di vista
pratico, c’è un grandissimo interesse per Beckett
nell’accademia italiana, fra i dottorandi, fra gli
studenti. Ma, tranne qualche eccezione che pure esiste,
noi italiani come i francesi tendiamo a letterarizzare
l’opera di Beckett, ad esplicitare il grande substrato
filosofico che nella sua opera naturalmente c’è, ma –
come avverte il grande saggio di Adorno che tu citavi –
rimane “puro detrito culturale”, e mostra la fine della
filosofia occidentale semplicemente essendo.
Gli inglesi, invece, hanno
quasi sempre presente l’aspetto concreto, e quindi
vitale del suo teatro. A noi promotrici del Convegno, io
e la mia allieva e ‘partner in Beckett’ Rossana Sebellin,
è sembrato molto utile che i giovani invitati al
convegno abbiano contatto con questo modo di leggere
l’opera beckettiana, ascoltando e confrontandosi, oltre
che naturalmente con qualcuno degli italiani, con
alcuni dei più grandi esperti al mondo sulla sua opera:
John Pilling, Enoch Brater, Stan Gontarski, Chris
Ackerley e altri.
Infine, a cento anni
dalla nascita, ci sembra utile mettere a contatto gli
studiosi italiani con studiosi di tutto il mondo, e fare
un po’ il punto dello status della critica attuale: se
sarà accettato il nostro invito, gli Atti del convegno –
che saranno pubblicati speriamo molto presto sulla
neonata collana della Laterza-“Tor Vergata” University
Press on-line – potranno contenere gli abstracts di
molti studiosi anche giovani che non parleranno al
convegno (non c’è posto per tutti, e dobbiamo purtroppo
effettuare una scelta!), ma che pubblicheremo
volentieri, per dare un panorama di quello che si
scrive, si studia e si pensa su Beckett oggi.
Uno dei temi più
costanti nel teatro il rapporto tra fedeltà al testo e
tradimento della messa in scena. Secondo alcuni il solo
fatto di mettere in scena Beckett costituirebbe un
tradimento, eppure la sua opera continua a riempire le
stagioni teatrali europee. Lo stesso Strehler –
brechtiano e razionalista– ha giocato con le distruzioni
di senso beckettiane e voi ospiterete proprio Giulia
Lazzarini, grande interprete beckettiana diretta da
Strehler .. .cosa possiamo aspettarci da questa
testimonianza?
R.:
La domanda è sorprendentemente in linea
con molte cose a cui sto riflettendo. Sto lavorando, in
particolare, sulla messa in scena di Fin de partie
realizzata da Cecchi. Com’è noto, Beckett richiede
una fedeltà totale alla sua scrittura, ai tempi e ai
ritmi previsti minuziosamente dalle didascalie; eppure
ogni messa in scena deve contenere elementi di
invenzione, per essere vitale. Come si fa a coniugare
fedeltà e libertà? È un dibattito aperto. Secondo
alcuni, la pur bella messinscena di Brook pecca un po’
troppo nella linea della passività, nonostante alcune
innovazioni esteriori come far recitare da uomini due
delle donne di Come and Go. Cecchi, invece,
secondo me riesce perfettamente.
Riguardo a Strehler e
Giulia Lazzarini, sono molto felice che Giulia abbia
accettato di venire a parlarci del suo Giorni felici:
ci racconterà la sua esperienza, ci dirà cosa ha voluto
fare Strehler con questo grande testo beckettiano e come
lo ha messo in scena. Penso che la sua testimonianza ci
farà capire come si confrontano due grandi, e come
avviene che un regista (partito da premesse diciamo pure
filosofiche del tutto diverse da quelle dell’autore)
riesca, entrando profondamente nel testo, a ‘servire’ il
testo nel senso più alto. Citerò scherzosamente Stoppard
nella sua sceneggiatura di Shakespeare in Love,
quando all’impresario Henslowe viene chiesto come
potranno essere risolti dei problemi apparentemente
insanabili, e lui gli fa rispondere: “Non lo so: è un
mistero”. Indagare i “misteri” della letteratura e del
teatro è il nostro lavoro,non è vero?
Liberare Beckett da
etichette e categorie artistiche e storicistiche…
liberarlo da “scolasticismi” fuorvianti per restituirlo
semplicemente a se stesso. Può essere anche questo uno
dei fini del Convegno?
R.:
Certamente. I più grandi critici beckettiani si mettono,
secondo me, al servizio del testo, lo contemplano
com’è. E credo che ascoltarli sarà estremamente
fertile.
“Negli ultimi anni,
quando il suo editore o il suo agente annunciavano
l’arrivo di un nuovo testo di Beckett, era lecito
aspettarsi una busta con un foglio bianco, se non
vuota”. Così scrisse Fruttero, il traduttore italiano di
Beckett. A pochi anni dal centenario della nascita cosa
ci possiamo aspettare ancora dal genio di En
attendant Godot e di Oh, les beaux jours ?
R.:
Di capirlo un po’ meglio, direi.
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