Un uomo e una
donna vivono da soli in una casa solitaria
vicino al mare e una sera aspettano a cena
una vecchia amica di lei. Non si vedono da
vent’anni. Con l’uomo di lei non si
conoscono. Quando l’amica arriva si crea un
triangolo apparentemente classico. In realtà
è come se tutto il loro mondo, sia della
coppia che dell’ospite, deflagrasse. Niente
è più come prima. Nessuna cosa o impressione
o ricordo è certa. Tutto è ambiguo,
vagamente panico. E’ come se la loro vita, i
loro ricordi fossero inconsistenti,
improbabili, addirittura irreali, cioè
impossibili, come se tutto si sfarinasse e
andasse in rovina irreparabilmente, se il
sentimento, qualunque sentimento, non
potesse avere più forma o senso o
credibilità o dicibilità. E il finale è
sospeso, come le loro vite: sospeso dalla
stessa vita: un rebus che non ha
conclusione. Lunghi silenzi, pause, lapsus,
scene montate come flashback
cinematografici: dietro tutto questo si
nasconde l’angoscia dei tre personaggi
sopraffatti dallo scorrere del tempo,
intrappolati nella stanza dove si svolge il
dramma. Celata dietro l’apparenza di una
innocente e realistica commedia, mano a mano
il testo offre uno scenario diverso in cui,
attraverso l'uso del linguaggio, emerge
tutta la drammaticità dell’incomunicabilità
fra i personaggi. Nei fitti dialoghi,
carichi di ambiguità, di pause e di silenzi,
si scorgono tratti del teatro beckettiano,
così come si percepisce l'anticipazione di
tanta parte della più recente produzione
drammaturgica.
Pippo di Marca, “uno dei migliori registi
teatrali della sua/mia generazione, ma un
raffinato teorico, veramente metateatrale,
della scena contemporanea”, come scriveva
Renato Nicolini, ha trattato il testo con
uno sguardo indagatore, da filologo,
scavando nel senso delle parole come un
archeologo, fino a svelare la condensa di
oscurità e di nevrosi che investe i
personaggi, incapaci di condividere un
ricordo in maniera oggettiva. Ma come scrive
Di Marca nelle note di regia "Il teatro,
purtroppo, o per fortuna, è anche altro: è
corpo. Il corpo in cui ogni volta si incarna
la parola. La fa diventare gesto, musica,
“visione” dal vivo, passione, sentimento,
azione, delirio, finzione ecc... I corpi, le
“persone”, inprescindibili, dei tre validi
interpreti, Fabrizio Croci, Francesca Fava e
Anna Paola Vellaccio. Partecipi, sensibili,
appassionati, compresi, in una “sfida”
certamente non facile."
Note di regia
In "Vecchi Tempi" ci sono tre personaggi:
una coppia londinese sui quarant’anni,
Deeley e Kate; e una vecchia amica di
quest’ultima, Anna, anch’essa sui quaranta,
che è stata lontana per oltre vent’anni
dell’amica di gioventù, e dall’Inghilterra,
e che ora viene a far visita a Kate e al di
lei marito.
All’apparenza una commedia: un vacuo e
“nostalgico” incontro durante il quale
“ricordare” i Vecchi Tempi. Così, più o
meno, viene comunemente rappresentata:
almeno in Italia, e per la mia esperienza di
spettatore.
Pinter è un autore non facile, ambiguo,
anche “astuto”: utilizza il linguaggio
corrente caricandolo di ambiguità, di pause,
di silenzi, con cui spesso crea effetti di
surrealtà. Viene dopo Beckett e il teatro
dell’assurdo e ne subisce in parte
l’influenza.
Si muove, dunque, solo in apparenza, su un
terreno naturalistico, realistico (anche se,
beninteso, c’è pure questo).
Qui, in “Vecchi Tempi”, mi pare che questo
climax sia presente forse più che in altri
testi.
É pieno di pause, di lunghi silenzi, di
lapsus, in un’altalena di scene “al
presente” montate a ridosso di scene “al
passato”, come fossero flash-back da
sceneggiatura cinematografica.
E non a caso: Pinter è stato anche un ottimo
sceneggiatore.
Tutto ciò, peraltro, impone inevitabili
acrobazie a teatro, dove gli attori sono
“condannati” all’hic et nunc!
Fatto sta, comunque, che nessuno dei
personaggi ha una “memoria” oggettiva del
proprio passato; ciò che ciascuno di essi
ricorda è molto soggettivo e diverso dal
ricordo degli altri. Niente, o quasi,
coincide. Sono loro ad esser gravemente
smemorati, malati o disturbati nel ricordo?
Oppure è il tempo che è in sé bugiardo,
inaffidabile? Oppure la nevrosi dell’uomo
contemporaneo rappresentata, incapace di
esprimere una qualsivoglia certezza,
irretita com’è in una dimensione
sentimentale falsa, una sorta di ipocrisia
atavica?
Oppure, ancora - e questo sembra
l’interrogativo più intrinseco al testo - è
proprio il linguaggio che è inadeguato a
raccontarci la realtà, il tempo, le ragioni
profonde di qualunque storia, persino della
Storia?
Tutti questi interrogativi (e certamente
anche altri) sono sottesi al testo. Ma,
ovviamente, non hanno e non devono, o non
possono, avere una risposta.
Perché, in fondo, si tratta di “arte”, di
teatro, di un’opera di drammaturgia, che,
come sia, ci “racconta” una storia; per
ambigua e assurda che possa essere.
Per cui è sull’opera, sulle parole, (pause e
didascalie comprese), che mi sono
concentrato. Rispettandole fino all’ultima
virgola: il che, detto da me, è quasi un
controsenso.
Il testo, anche in quanto “storia”, l’ho
affrontato con uno sguardo direi da
filologo, o da archeologo, e dunque
“scavando”.
Scavando scavando, con la collaborazione
degli attori, è venuto fuori che la commedia
si tinge di dramma; e forse è qualcosa di
più: una specie di delirio, una sorta di
piccolo “inferno”.
Al di sotto delle apparenze e delle
“conversazioni”, più o meno accese o
pausate, emerge un climax vagamente “noir”,
di oscurità, di foschie, di nevrosi, di
incomunicabilità, e su tutto soffia,
specialmente nel finale, un alone di morte.
Il personaggio che porta con sé questo alone
è Kate. Parla poco, è chiusa in se stessa e
alla fine sembra spalancare una specie di
abisso domestico in cui tutti e tutto
smenbrano sprofondare.
Per queste ragioni, ho sentito la necessità
di inserire, all’inizio e alla fine dello
spettacolo, le didascalie indicate nel
testo: perché ne costituiscono la perfetta
cornice “drammaturgica”.
E sembra addirittura ci dicano che i
personaggi, “immobili”, chiusi in quella
stanza, quasi fosse il sarcofago dei loro
ricordi e delle loro vite, da lì non
usciranno più.
Tutto ciò che avete letto, per quanto
eventualmente interessante, sono “parole”;
forse non meno false, o fittizie o ambigue,
delle parole del testo.
Il teatro, purtroppo, o per fortuna, è anche
altro: è corpo. Il corpo in cui ogni volta
si incarna la parola. La fa diventare gesto,
musica, “visione” dal vivo, passione,
sentimento, azione, delirio, finzione ecc...
I corpi, le “persone”, imprescindibili, dei
tre validi interpreti, Fabrizio Croci,
Francesca Fava e Anna Paola Vellaccio.
Partecipi, sensibili, appassionati,
compresi, in una “sfida” certamente non
facile.
Teatro Palladium - Università Roma Tre
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