Questioni
praticamente in dibattito da un paio di
secoli, soprattutto in quest’ultimo passato
attraverso un contesto più che altro
conseguente a la moltiplicazione
dell’investimento monetario, con un
accanimento quanto mai deplorevole della
speculazione edilizia selvaggia,
dequalificando l’ambiente secondo le
esigenze del consumismo e del liberalismo
più sfrenato. Questa Mostra maceratese mi
risulta oltremodo intelligente, in quanto,
dato il suo contesto, coinvolge artisti di
varie discipline che testimoniano l’oggetto
del discorso suggerito da Roberto Crespi.
Discorso che in nessun modo intacca quello
spirito umano quando si protende a unire
ideale, reale e naturale, escludendo il mero
artificio proveniente dal profitto che una
pessima architettura ha proposto ed attua
senza alcuna vergogna. In tal senso,
considerando artisticamente questa etica,
spicca quella che fu la “materia”
elaborativa di Edoardo Persico (del quale
ricorre proprio quest’anno l’ottantesimo
anniversario della morte) che promosse una
certa identità prospettica come fusione di
paesaggio-arte-architettura. Occorre
rifarsi, dunque, alle infanzie come
potenziali ricordi delle geometrie che
“ingombrano” il paesaggio come un ricordo al
passato della socratica avversità nello
stendere l’oggetto-dimora, o quell’altro
contributivo alla società e alla civis
architettonica dove l’incontro tra gli
esseri umani (con i loro mille intenti) sia
diverso da un semplice oggetto raccolto su
una spiaggia, come se l’esito della mano che
lo raccatta pregiudicasse il suo statuto di
oggetto. E dunque, “se questo oggetto
spiaggiato dal mare non è possibile
rinviarlo oltre modificandolo attraverso una
negazione all’appartenenza dell’oggetto
stesso”, occorre saper collocarlo
amabilmente in ciascun contesto
spazio-temporale. E’ intorno l’ambiente
“malato” che Roberto Crespi preme
coinvolgere quelli architetti “sani” della
provincia di Macerata; coloro che si situano
nell’orientamento intorno la coscienza della
conservazione del paesaggio; espressione
metafisica che prevalentemente viene
recepita e tradotta dagli artisti “in
Mostra”. Molteplici sono i linguaggi
dell’arte impiegati dai protagonisti visivi
per situare e portare l’oggetto messaggero
della Mostra: dalle incisioni di Giuseppe
Mainini (scomparso nel 1981), alla pittura
metafisica e onirica di Carlo Iacomucci,
quella crepuscolare di Ubaldo Bartolini, o
surreale di Riccardo Piccardoni, del
“labronico” Arnoldo Ciarrocchi (scomparso
nel 2004) con l’astrattismo di Paolo
Gubinelli; dalla fotografia sfumata di
Renato Gatta e quella più poetico-realista
di Sandro Polzinetti, fino alla scultura
soggettuale-materialistica di Francesco
Roviello che imprimono nel loro particolare
linguaggio la “costruzione ideale” contro le
negazioni delle coscienze immorali
articolate da questa modernità fin troppo
meramente economico-politica.E’ necessario
che interiorità ed esteriorità del pensiero
(non esenti da ricordi infantili), debbano
in questo tempo, proiettare alla sostanza
dell’oggetto non solo le stagionalità o i
climi del paesaggio, ma anche un protendersi
verso quella moralità espressiva tipicamente
verista e impressionista tipica di Van Gogh;
pittore capace di andare oltre il colore e
l’espressione attraverso un linguaggio
descrittivo in comunione al pensiero
dell’oggetto armonico e “parlante” in lingua
pentecostale (una sorta di macchina
telepatica). Per questo, “bastardamente” la
psichiatria ha sempre definito questo suo
desiderio un meccanismo schizofrenico, non
tenendo conto che la “follia” è una
principesca metafora della verità, della
realtà e della pura espressione artistica
ben oltre il “paesaggio”. Mi pare, intanto,
che sia la peggior architettura a progettare
vere e proprie costruzioni schizofreniche:
tra paesaggio naturale e bruttura
artificiale. Si vuole anche sottintendere
che l’architettura ha ora il compito di
“curare” tutto quello che versa nello
sfacelo…progressivo. Ci vogliono, con
l’apporto delle istituzioni soprattutto
politiche, e naturalmente anche quello degli
industriali, nuovi termini di coscienza
morale con un atteggiamento che spinga la
rinascita delle sensibilità e attività
individuali, specie nel campo delle arti. Si
deve unire la funzionalità al piacere
sensoriale; che ci si orienti verso il
“costruire” con una importante coscienza
territoriale. A non “essere costruiti”,
bensì “abitati”, suggerisce Roberto Crespi.
E chissà che col tempo tale apporto ci lasci
alle spalle anche certe polemiche
distruttive. Occorre anche l’intervento
della poetica per evadere, ricostruire ciò
che andava e va preservato, a difesa di
quei, seppur nascosti, “angoli di campo” del
paesaggio. Come quando, nel passato, una
volta “si era”. |