Un incrocio di
fascino, anzi di fascinazioni. Il fascino
del racconto di Prosper Mérimée, Carmen,
pubblicato nel 1845. Il fascino dell’opera
di Georges Bizet andata in scena nel 1875;
tre mesi dopo, il grande compositore moriva
a trentasette anni. Il fascino di un
successo che crebbe dopo la scomparsa; il
compositore si sfilò dalla vita come
un’ombra. Il fascino, lungo, protratto nel
tempo, giunto fino a noi, di femme Carmen e
di una tragedia che coniuga l’amore alla
passione e alla morte, fluida e torbida come
un torrente inquieto, come una misteriosa
danza cantata. Il fascino della danza
cantata, solubile allo sguardo, quasi
magnetica, attraverso le immagini del
cinema, quelle più vicine a noi.
Questa Carmen viene da una consolidata
esperienza. Amedeo Amodio ha percorso i suoi
e i nostri anni con coerenza, cambiando di
continuo, con sottigliezza, misura ed
eleganza, amando la sua arte, inseguendola
nei cambiamenti, con uno scopo preciso ed
evidente. L’obiettivo affiora decisamente in
questo suo lavoro, ripreso, aggiornato,
fresco, rispetto ad una prima proposta del
1995, al Teatro Municipale Romolo Valli di
Reggio Emilia per l’Aterballetto di cui
Amodio è stato fondatore e direttore. Erano
anni in cui la danza stava assumendo
un’importanza vitale, trovando una nuova
qualità in una ricerca contrapposta alla
comunicazione allargata e artificiale, volta
a conquistare il generico “pubblico del
mondo”. Un processo ancora in corso. Una
ricerca intrecciata tra la musica, le arti
visive e le immagini mute (fotografia,
teatro d’avanguardia).
Non è un caso che Amodio in questa Carmen
abbia cercato un’altra strada nelle ombre,
in un bel gioco di luci e di prospettive,
gli alter ego dei “suoi” (di Amodio)
personaggi avuti in prestito da Mérimée e
Bizet. Ombre che possono fuggire,
abbandonare i loro “fittizi” proprietari e
scegliere un’indipendenza senza padroni né
confini. Ombre e ricatti. Per aiutarci a
capire che non siamo mai soli. Amodio è
stato costantemente attivo in questa
ricerca, fin da giovanissimo. Fin da quando
veniva coinvolto alla Scala in Anna Bolena
di Gaetano Donizetti, regista Luchino
Visconti. Era il 1957, gli occhi sgranati di
Amedeo, tutti per la danza, scoprivano
l’energia e il rigore di un regista già
famoso e di una Callas ancora giovane –
aveva trentaquattro anni – pronta al
successo, leggera come non era mai stata
prima (aveva perso venti chili per La
traviata con la regia sempre di Visconti).
Lezioni di rigore, attenzione, che il futuro
coreografo ricorderà, un patrimonio di
ricordi di quel che accadeva sulla scena e
dietro la scena, un mondo più piccolo e
vero, ordinario e ripetitivo. La scena
vuota, gli attori e tutti gli altri sono
andati via. Bisogna rassettare, riporre gli
oggetti, tornare all’ordine com’era prima
dell’alzarsi del sipario. Da questi ricordi
parte la proposta registica della Carmen al
Teatro Massimo di Palermo, la cui
protagonista è la celebre Eleonora Abbagnato,
palermitana, étoile dell’Opéra de Paris.
Dunque, tutto accade quando lo spettacolo è
finito, il palcoscenico sarà sgombrato e la
recita cambierà. Ruoli, azione e copione non
sono più gli stessi. La danza dello
spettacolo di Amodio corre veloce all’ultima
parte, Quarto Atto, dell’opera. I personaggi
sono gli addetti allo sgombro, al trasporto
delle scene. Volti e corpi fuori dalla magia
della recita ormai dismessa, sostituita da
qualcosa d’involontario, suggerito dalla
casualità. Ed ecco che un camionista
raccoglie da qualche parte una giacca da
riporre, la indossa, e subito diventa Don
José, un uomo innamorato disperatamente,
deluso e violento. La danza è del tutto
diversa, le musiche sono di Bizet (adattate,
con gli interventi originali di Giuseppe
Calì); ci sono Carmen, Don José, Escamillo,
Micaela… ma ogni momento, ogni passaggio,
risulta un “doppio” rispetto sia ai
personaggi che alle situazioni. Il doppio
costituito da ombre che appaiono sulle
pareti e si allungano come elastici, angeli
custodi infidi, provvisori che,
all’improvviso, scattano via, dileguandosi.
L’idea del “doppio” – la giacca trovata, le
ombre elastiche – è di una grande
suggestione. L’atmosfera è astratta, rimanda
alla morte/Don José che uccide Carmen con il
suo bacio, Carmen vestita di bianco come
fosse avvolta da un sudario). Il gioco delle
parti s’identifica con una soluzione
pirandelliana che trasmette l’angoscia e il
senso della fine, possibile e ignorata; la
fine nascosta e imminente, in agguato nei
tanti destini coinvolti nei duelli
dell’amore-passione.
Amedeo Amodio, con la sua Carmen suadente,
incalzante, colma di pudore, svela i “doppi”
che noi tutti siamo tra realtà e ombre che
ci abbandonano; e suggerisce il ritmo delle
sensazioni audaci: temere l’amore se porta
alla morte. Direbbe Maria Callas lucida,
severa, divertita, con i versi dell’Habanera
di Bizet : “Bada a te!”.
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Elisabetta Severino
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