La pineta è il
luogo dove ho mosso i primi passi. Un luogo
dove era facile smarrirsi quando si era
molto piccoli, tra mille sentieri
apparentemente tutti uguali; un intrico di
rovi, tronchi, canne, sterpaglie, senza
soluzione di continuità. Per tutta
l’infanzia ho vissuto la pineta come il
luogo dell’immaginario e dell’avventura. Ho
respirato l’energia vitale degli alberi
fortificando il corpo e lo spirito. Alla
pineta è intimamente legato il ricordo di
mio nonno, una figura verticale che aveva
l’eleganza di un pino.
Nel folto della pineta si può ancora
percepire l’assoluta fisicità, immanente e
inconoscibile nello stesso tempo, e
riprovare quello smarrimento originario.
Nel cuore della pineta, lo sguardo si perde
nell’universo vegetale, e non trova più
riferimenti umani. Tutto si fa più visibile
e presente, ogni foglia o filo d’erba
acquista rilievo e nitidezza. La visione è
totale, onnicomprensiva degli elementi che
si hanno davanti agli occhi, e la luce
raggiunge tutti i recessi e chiarifica ogni
trama, rivelando la complessità segnica del
paesaggio. Ogni aspetto di questa realtà
risalta agli occhi nello stesso momento. Si
può vedere tutto contemporaneamente, ma non
si può sostenere a lungo questa visione
poiché si avverte l’impossibilità di
quantificare e trattenere tutte le
informazioni visive, l’infinita molteplicità
dei piani di lettura, una sorta di
iperspazio, che si amplifica ulteriormente
nella percezione oculare. Uno spazio
mentale, esperibile solo dall’immaginazione,
bisognerebbe infatti essere uno scoiattolo o
un insetto per poterne seguire con tutto il
corpo mobile le linee direttrici. L’occhio
tuttavia si addentra e ridisegna una nuova
realtà, anche con l’ausilio della fotocamera
che congela ogni minima variazione della
scena.
Il visibile e l’invisibile ancora oggi credo
siano i temi fondanti di ogni ricerca
fotografica e produrre visibilità (prima
ancora di ogni possibile
significazione) è la ragione di ogni
fotografo. |